PIEMONTE
Sessant’anni di penna, passione e pedali. Franco Bocca, il cuore gentile del ciclismo piemontese
di Umberto Zollo | Torino (TO) — Un racconto lungo sessant’anni tra redazioni, gare di provincia e amicizie nate ai bordi delle strade. Franco Bocca, il decano del giornalismo ciclistico piemontese, ha festeggiato una vita dedicata al racconto della fatica e della passione.
di Umberto Zollo
Un traguardo che non è solo una cifra tonda, ma una storia lunga come una salita di montagna, fatta di curve, tornanti, vento in faccia e panorami che tolgono il fiato.
Il 22 ottobre, una sala piena, amici, colleghi e campioni, ha festeggiato Franco Bocca, il cuore gentile del ciclismo piemontese. Non un uomo da prime pagine gridate, ma da colonne silenziose e sincere, di quelle che raccontano la verità delle persone prima ancora che quella delle gare.




@foto di Umberto Zollo
Lui, emozionato, ha sorriso e si è concesso al microfono come sempre: con la misura di chi sa che le parole, se scelte bene, sanno pedalare da sole.
“Settembre 1965, avevo sedici anni, timido e impacciato. Ho bussato alla porta del Piemonte Sportivo chiedendo quanto costasse pubblicare un articolo. La direttrice mi rispose: “Non costa nulla. Anzi, se vuoi continuare, ci fa piacere”. E da lì, con la Nizza–Torino di quel weekend, è cominciata la mia avventura. Sessant’anni dopo, sono ancora qui.”



@foto di Umberto Zollo
Da lì non si è più fermato. Né la pioggia né la neve hanno mai spento la sua voglia di raccontare. Non cercava il clamore, ma il respiro del ciclismo minore, quello dei ragazzi con le ruote un po’ storte e i sogni dritti.
“È impagabile, ha ricordato, vedere quei ragazzini diventare campioni, prima ancora che se ne accorgano i giornalisti importanti.”
In sala, in quel momento, qualcuno ha abbassato lo sguardo sorridendo: perché tutti, lì dentro, sanno che è vero. La giornata sembrava un ritorno ai tempi delle redazioni affollate, con i telefoni che squillano e l’odore dell’inchiostro sulle dita.


@foto di Umberto Zollo
In prima fila c’erano colleghi e amici di una vita:
Gianni Romeo, signore della parola e delle redazioni torinesi;
Beppe Conti, la memoria enciclopedica del ciclismo, oggi volto amato della RAI;
Claudio Gregori, la voce elegante e ironica della Gazzetta dello Sport;
Silvia Garbarino, firma attenta de La Stampa;
I gemelli Viberti, Paolo (Tuttosport) e Giorgio (La Stampa), due cuori e una tastiera;
Federico Calcagno della RAI e Timothy Ormezzano del Corriere della Sera.
E poi loro, i campioni veri:
Franco Balmamion, due volte re del Giro d’Italia (1962 e 1963) e tricolore nel ’67;
Italo Zilioli, che nel Tour del 1970 si prese la gloria della maglia gialla per sei giorni;
Angelo Marello, il leggendario carrozziere dei campioni.
E tanti altri, troppi da elencare, ma tutti con la stessa scintilla negli occhi: l’affetto per un uomo che, per sei decenni, non ha mai smesso di raccontare la fatica come una poesia.
Franco non ha mai fatto del giornalismo la sua professione principale. E forse è proprio questo che lo rende diverso. Perché scrivere, per lui, non era un lavoro, ma un modo di vivere: un esercizio di curiosità e dedizione. Ogni riga scritta, ogni intervista fatta dietro una transenna era un atto d’amore verso il ciclismo e la sua umanità.
Ha visto corridori nascere, crescere, vincere e sparire. Ha attraversato sessant’anni di biciclette, ma il suo sguardo è rimasto lo stesso: curioso, onesto, leggero. Quel tipo di giornalismo che oggi sembra antico, e che invece è l’unico che non invecchia.
Sessant’anni dopo, la risposta è la stessa: non costa nulla, se dentro ci metti il cuore.
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