Addio a Roberto Pedullà, identità del rugby fiorentino

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Nella notte tra martedì e mercoledì si è spento Roberto Pedullà, rugbista classe 1938, uno dei nomi che hanno segnato l’identità del rugby fiorentino fin dagli anni ’50. Giocatore di talento, uomo diretto e generoso, incarnazione autentica dello spirito dei pionieri, Pedullà è stato per decenni un punto di riferimento umano e sportivo per intere generazioni di rugbisti.
Pedullà si avvicinò al rugby a 18 anni grazie all’amico Gianni Mansani. Esordì nella Coppa Cicogna, dove si fece notare subito: i giornali lo descrissero come un giocatore “eccezionale nei placcaggi, sembra posseduto dal demonio”. Velocità, decisione e un innato talento difensivo gli valsero l’ingresso immediato in prima squadra.
In un’epoca di rugby duro e romantico, Roberto era un’ala senza paura. Visse partite rimaste nella memoria del movimento fiorentino, dalle sfide con il Parma all’incontro storico contro la rappresentativa della British European Airways durante la Settimana Britannica. Partecipò anche alla conquista della Serie A nella celebre finale di Napoli, uno dei momenti simbolo del CUS.
Figura schietta e leale, Pedullà o Pedulla come lo chiamavano a Firenze senza accento, attraversò tutte le fasi del rugby cittadino: dalle trasferte difficili e goliardiche degli anni pionieristici alla crescita di un movimento che lui stesso ha contribuito a rendere solido e riconoscibile. Una vita di campo e di legami profondi che resterà nella memoria di tutta Firenze rugbistica.
A nome di tutte le società fiorentine, i presidenti del Firenze Rugby 1931, del Florentia Rugby e dell’Unione Rugby Firenze esprimono le più sentite condoglianze alla famiglia Pedullà, unendosi al lutto di chi ha conosciuto Roberto non solo come atleta, ma come uomo di valori e passione. La comunità rugbistica fiorentina si stringe attorno ai suoi cari, riconoscente per ciò che Roberto Pedullà ha rappresentato: un pezzo autentico di storia, un esempio di forza, ironia e appartenenza.
Per un ultimo saluto a Roberto Pedullà, la salma è esposta fino a venerdì mattina presso l’RSA Paolo Sesto.Le esequie si svolgeranno venerdì alle ore 11:30 presso la Chiesa di San Salvi.
Alleghiamo un’intervista fatta a Roberto diversi anni fa e lasciamo spazio alle parole di chi ha vissuto il rugby insieme a lui con esperienze indimenticabili. Il saluto di Alessandro Cecioni, giornalista e uomo di rugby:

Ma come si fa ora noi, tutti noi, a pensare a te senza ridere. Qualcuno dirà che non si deve, la morte impone certi rituali, certi “atteggiamenti consoni”. Ma con te, Roberto, come si fa. Non li vorresti nemmeno, ne sono sicuro. I ricordi si ammassano, e sono tutti bellissimi, lucenti, raggi di sole, anche se molte volte accadeva tutto nel fango, nella melma impossibile e adesiva del Padovani. Avevi un talento straordinario nel trovare soprannomi. Cannevote, per dire. Chi lo ha mai saputo come si chiamava davvero. Lo segnavano così anche nel foglio convocazioni, e Ciafo? Com’è che lo trovasti quello? Era onomatopeico, spiegasti una volta. 

Arrivammo a giocare al Cus ai primi anni 70 e tu eri già un mito, il mito del rugby fiorentino. Per quello che avevi fatto in campo, certo, per i placcaggi che davi, per la finta e il gioco di gambe, per la violenza di certi contatti. Era un altro rugby, ma era tutto diverso anche intorno a noi. Ci muovevamo in treno, spesso, a volte in macchina, raramente in pullman. Anche qui piccoli flash. Quella volta a Bologna che c’era una signora in autobus con una bambola. “Signora le hanno scambiato la bambina, questa è una bambola”. Avevamo imparato a conoscerti. La battuta la facevi serio, ma un attimo prima strizzavi gli occhi e passava nel tuo sguardo il sorriso che avresti suscitato.

E quella volta in campo che ti mettesti un lombrico sotto il naso come un baffo finto e ti voltasti verso il Chirici: “Che me lo dai un bacino?”. In partita, nel pieno di una mischia. Spiazzante, ma che gioia era affrontare il gioco così. Per te era facile, eri bravo. Un giocatore completo. Non sei andato in nazionale perché non giocavi in un club dal nome altisonante, eri del Cus Firenze, non proprio la società più amata in federazione. Eppure.

Certo ne avevi fatte. Raccontavano, in quelle trasferte di tressette e scopone ripetuti alla noia, di te una volta a Bologna molto offeso dal pubblico perché li stavi stendendo uno a uno, e di uno che ti aveva provocato di là dalla rete, sicuro che quella lo avrebbe protetto. Calcolo errato, desti un pugno alla maglia di ferro e gliela stampasti in viso.

E raccontavano, ancora, di quel gennaio del ’67, dopo l’alluvione, a Milano, vecchio Giuriati, tu espulso e il pubblico che si scaglia contro di te che vai nello spogliatoio. “Erano così in tanti a volermi dare cazzotti che si davano noia fra loro, e io avevo il tempo di sceglierne uno, colpirlo, metterlo giù, e poi un altro. Mi misi a correre verso lo spogliatoio, ma avevo i tacchetti di alluminio e pattinavo facendo giravolte e ogni volta bam un cazzotto al più vicino e quello giù”. Un film, i compagni vedendo l’assalto a Roberto gridarono: “Tirano al Pedulla” e uscirono tutti. Risultato: punti di penalizzazione e squadra retrocessa. Ma ne era valsa la pena. “Invasione di tribuna”, dicevi tu con le lacrime agli occhi dal ridere.

Eravamo i ragazzi venuti dai licei, reclutati per portare nuova linfa alla squadra. Voi “vecchi” ci guardavate con diffidenza, ma quando vi accorgeste che pendevamo dalle vostre labbra, ci accoglieste e talvolta ci passavate anche la palla. Da Milano un altro ricordo: tua espulsione dalla panchina dove sedevi con Mascherini. L’arbitro Pogutz concede una touche un po’ troppo arretrata rispetto a dove era uscito il pallone e tu dalla panchina: “Oh Potzugo era uscita qui”. Potzugo se la prese, forse per il nome storpiato: fuori! 

Eri unico anche nell’amicizia, con Mario, con Raul, con “Lupo” Merlini. I tuoi racconti del pittore Scatizzi ci tenevano bloccati per ore, quelli su Lupo e i suoi tentativi di cantare anche. E quando non ti veniva in mente qualcosa aprivi il tuo taccuino delle barzellette ed era l’apoteosi. Ora te lo posso dire: quella del gufino la più bella di sempre. Ma riuscivi anche nel cabaret quotidiano, nell’improvvisazione. Santa Maria Nuova, Lodigiani ricoverato per shock anafilattico, più di là che di qua, io e te da lui a chiedere come condurre l’allenamento. Nel letto accanto uno ricoverato con un ittero, giallo davvero, con un orologio da sub al polso. “Madonna io un ittero così non l’ho mai visto, è giallo anche il quadrante”. Sdrammatizzare il dramma, sempre, comunque. 

Era una squadra bellissima quella che ci aveva preceduti e nella quale te, Raul, Mario, Ugo giocavate. Ugo aveva un’eleganza mai più vista sul prato del Padovani, faceva finte che mandavano l’avversario per terra. Una volta ne fece due di fila e due avversari caddero uno sull’altro e tu, con gli occhi che ridevano: “Scopa”.

Quando il magistrato ti fece quel brutto tiro al giornale mi chiesero se davvero.. “Una bufala, non è da lui”. Eri innocente, noi al Padovani lo sapevamo tutti. Fossero venuti a chiedere avremmo spiegato. Non vennero. C’è voluto un po’ ma hanno capito. 

Ci hai fatto crescere come uomini e come giocatori, ci hai tolto di dosso paure e snobismi, sei stato la scuola di vita cui nessuno di noi avrebbe potuto aspirare. Non lasci un vuoto, ma un pieno di ricordi, sensazioni, parole e racconti. Sei dentro ognuno di noi, anche dei più giovani che magari non ti hanno mai visto, ma sanno chi è stato, era ed è Roberto Pedulla.